Non posso nascondere che mi si è spezzato il cuore, davvero, quando l’ho saputo. Il caro Horst Tappert, per tutti l’ispettore Derrick, ci ha lasciato da poco. E lo ha fatto con discrezione, nella stessa maniera con cui si congedava al termine di ogni puntata del fortunato serial poliziesco. Un’uscita di scena stavolta definitiva e senza acclamazione, sommessamente appartato com’era dalla vita e dal mondo, quando nella clinica di Monaco sopiva le ultime inquietudini. Eppure non ha indugiato ad infrangere lo schermo in maniera trasversale, strappando allo stesso tempo applausi e feroci strali. Ma una cosa, al di là del bene e del male, tutti gliela riconoscono. La più grande, la più importante, ossia la capacità di aver rappresentato il volto buono della Germania e di non aver tradito le aspettative di un popolo che implorava riscatto morale dopo lo scempio dello sterminio. I tedeschi l’hanno caricato di un mandato gravoso, che doveva redimerli agli occhi del mondo dagli scroscianti pregiudizi sulla loro natura mefistofelica. E lui li ha ripagati con onore, mantenendo la promessa di espiare tutte le colpe, estinguendo nel suo piccolo quel debito che la Germania ha contratto per sempre con l’umanità. È un macigno quello del passato, che cola dalle sue borse turgide a cui si abbandonano gli occhi a palla, languidamente pazienti nella fissità dell’espressione plastica. Cui non manca di ammiccare l’inflessibile austerità del volto, assai di rado generoso nel dispensare sorrisi agli interlocutori.
Si è cullato assiduamente nella sobrietà del suo profilo antieroico, di cui si beava, tentando di scalzarsi di torno quegli eroi spacconi americani che infestavano gli schermi, grandi e piccoli, e smarcandosi dal loro back-ground di violenza, sesso e spettacolarità. Antieroe, già, perché non risolveva il caso picchiando il bandito di turno davanti al bancone del saloon, magari calandosi in scena come un deus ex machina, ma spesso gli bastava semplicemente sollevare la cornetta del telefono. Perché non berciava con urla, schiamazzi o parolacce per intimidire i colpevoli, ma si serviva del suo inappuntabile garbo per porli in soggezione. Perché non era affetto da manie superomistiche, ma all’autogloriarsi preferiva una silente umiltà. Perché non si prodigava in inseguimenti spericolati rimanendo miracolosamente illeso, ma ricercava la buona parola, appuntita e suadente, con cui induceva l’interlocutore a desistere e a confessare. Talvolta piantandogli lo sguardo in faccia e martellandolo di domande per farlo soccombere. È la sublimazione del linguaggio, verbale e soprattutto mimico, che guida il lettore alla corretta esegesi di ogni episodio. Le inquadrature esasperate su quegli sguardi algidi, tipicamente tedeschi, quasi sgomentano, di primo acchito. Poi spronano, incalzano il pubblico all’introspezione, a specchiarsi nei personaggi per ritrovare se stesso in tutte le sue enigmatiche contraddizioni di essere umano.
Derrick ci impone di riflettere. E la sua flemmatica pacatezza tende proprio a questo, nella cornice del succedersi oltremodo blando delle scene e della tragica teatralità nella quale vengono immortalati i personaggi.
Che poi le puntate siano ripetitive e presentino sempre le stesse tematiche è fuor di dubbio. Alcolismo, droga, prostituzione si avvicendano di puntata in puntata con ossessività, da masticare e rimasticare in tutte le salse. Ma c’è un preciso intento in tutto questo: mettere a fuoco i tre cancri della Germania avviata all’industrializzazione e fare opera di denuncia sociale. E l’unico modo per sensibilizzare l’opinione pubblica e sollecitare le istituzioni politiche ad intervenire è proprio quello di sbatterli in scena fino ad esaurimento. Non tanto per il gusto dell’orrido, ma per amor patrio. Amore, sì, per piazzare il Paese di fronte ai suoi problemi e farglieli risolvere da bravo. E dunque per migliorarsi e diventare grandi. Un po’ come i naturalisti francesi e il loro alfiere Zola, tutto intento a stigmatizzare il flagello dell’alcolismo, non col capriccio dello speculatore, ma col piglio di chi si sforza di capire le ragioni di quella che fu l’autentica piaga degli scorticati sobborghi parigini. Solo con questa consapevolezza la Francia ha potuto far sfoggio della sua grandeur. Poi il mondo le ha gridato Chapeau.
E così, chi non tiene presente questa prospettiva non può cogliere la funzione di veicolo politico, sociale e culturale che Derrick ha magistralmente assolto. Anzi, è meglio che non lo guardi proprio. Qui allo spettatore non è permesso divertirsi o sollazzarsi sul divano davanti al televisore. Le noccioline e i pop corn vengono buoni per le pellicole Usa, tanto non scadono. Lo spettatore derrickiano non ne vuole sapere di lasciarsi imbacuccare dalle sparatorie nei saloon o dalla sfacciata megalomania d’Oltreoceano.
Si soffre nelle puntate dell’ispettore, con finali spesso agghiaccianti che lasciano l’amarezza in cuore. Come a dire che in fondo la vita è così, un dramma in cui troppo spesso a prevalere è quel senso di “infinita vanità del tutto”, di indolenza esistenziale che induce gli individui ad uccidere o a suicidarsi. Ma senza saccheggiare Leopardi, basta dire che non c’è modo di rilassarsi, di distendere i sentimenti, che ne escono frustrati, parossisticamente irritati.
Certo, mi rendo conto che così a parole sembra l’identikit di una produzione televisiva deprimente, che allontanerebbe anche lo spettatore di più buona volontà. Eppure è stato un prodotto che commercialmente ha funzionato, anche molto bene. E che addirittura è riuscito a scomodare pure l’attenzione di Helmut Kohl: “Derrick è il miglior prodotto d’esportazione dopo la Volkswagen”, amava ripetere l’ex cancelliere, uno dei fan più sfegatati. Ma è proprio così, perché la fortunata serie è stata “esportata” in oltre 100 paesi (chi dice 94, chi 120, ma insomma siamo lì) e ha raggiunto il traguardo di ben 281 puntate in soli 24 anni. Anche qui in Italia ha trovato confidenza col grande pubblico. Addirittura alcune puntate evocano il Belpaese, ma in chiave negativa, perché sempre graffiato dall’artiglio della mafia, con svariati boss come protagonisti o con personaggi comunque collusi con la criminalità organizzata. Fa male, sì, vedere questi episodi e lo sguardo dell’ispettore, davanti alla telecamera, tipico di chi leopardianamente si interroga: “Non so se il riso o la pietà prevale”. Poi però ci si consola osservando come anche la Germania abbia un bel da fare nel pulire i panni sporchi di casa propria. “Ed ecco un altro individuo consegnato alla giustizia”, conclude spesso con risoluta fierezza, ma senza celare un refolo di scetticismo sull’efficienza della macchina giudiziaria tedesca. Noi italiani, dunque non possiamo sentirci poi così soli. E da buon pargolo dell’idealismo teutonico soffre anche lui, con l’espressione acquosa degli occhi che suggerisce comunque una lealtà di fondo nello stare di fronte al disagio della vita. Nonostante questo, lo strumento per relazionarsi rimane il dialogo, la parola tagliente e sferzante che pure rifulge di una trasparenza adamantina. Derrick ne sente di tutti i colori, ma raramente si spazientisce, mantenendo intatto quel suo moderatismo, di matrice kantiana o forse tedescamente romantico, che talvolta lo lascia affezionare all’interlocutore.
In una parola, dunque, ciò che ha saputo fare Derrick è aver unito i tedeschi ancor prima della caduta del muro, restituendogli un comune Volksgeist, una comune coscienza di popolo che le guerre del Novecento avevano ormai sepolto.
Infine, Horst, permettimi di salutarti personalmente: avrei voluto tanto conoscerti, anche perché quando i giornali parlavano di te tratteggiavano una palmare corrispondenza al personaggio in cui ti eri immedesimato per 24 anni. Forse avremmo avuto diverse cose in comune visto che anche tu ripugnavi al chiasso delle vacanze balneari prediligendo il raccoglimento solitario del mar Glaciale Artico, dove eri solito recarti gli ultimi anni. Ed ora, quel raccoglimento, l’hai trovato per sempre. Mi mancherai.
Federico Polverelli